martedì 16 aprile 2024

Jean Siméon Chardin - Il barattolo di albicocche - Art Gallery of Ontario Toronto

Un barattolo di albicocche sciroppate pieno solo per metà, con il tappo avvolto da un foglio di carta tenuto stretto da un filo di spago, tre calici di vetro, due focacce croccanti e un frutto. E poi ancora due tazze che si immaginano di fine porcellana con un decoro floreale, simbolo di un certo benessere perché all’epoca tè, caffè e cioccolato non erano bevande per tutti, ma solo per chi poteva permetterselo.

Jean Siméon Chardin, Il barattolo di albicocche - 1758. Art Gallery of Ontario, Toronto (olio su tela ovale) © Art Gallery of Ontario

Ma quale epoca? Sebbene questo dipinto sembri modernissimo – diciamo che dimostra almeno 100 anni di meno – siamo alla metà del 1700, nel 1758 per l’esattezza e l’autore è Jean Siméon Chardin (Parigi 1699, 1779).
In un’epoca in cui chi voleva emergere dipingeva ‘la storia’ – che fosse reale o mitologica ma una narrazione doveva esserci – Chardin sceglie il silenzio, la poesia di piccole cose quotidiane; questo non gli impedisce di raggiungere un buon successo e nel 1728 è ammesso all’Accademia Reale di Pittura e Scultura, in seguito espone con regolarità al Salon del Louvre dove ottiene l’apprezzamento del pubblico e l'ammirazione sconfinata di Denis Diderot.
Chardin mette al centro dei suoi dipinti oggetti qualunque: terrecotte, frutta, barattoli e piccole tazze, brioches e qualche fiore, ninnoli di porcellana decorata. E quando sceglie di dedicarsi alla figura umana (negli anni ’30 e ‘40), nei dipinti troviamo una, due persone, mai di più. Ragazzi che giocano con il volano o le bolle di sapone, garzoni e cameriere persi nelle occupazioni di ogni giorno. Gente qualsiasi, così come gli oggetti sono quelli di ogni giorno. Non ci sono storie da raccontare, ma attimi da conservare.
Jean Siméon Chardin, particolare da
Il barattolo di albicocche - 1758. Art Gallery of Ontario, Toronto (olio su tela ovale) © Art Gallery of Ontario

E se, quando guardiamo una storia, possiamo immaginare poco perché molto è già detto, dipinti come questo aprono un mondo: sono gli avanzi di una colazione appena fatta, o invece qualcuno sta preparando qualcosa per il pomeriggio, cosa nascondono quei pacchi alla destra del dipinto, zucchero forse? Oppure cosa? Possiamo pensare che questi oggetti si trovino in un’ampia cucina esattamente qui dove siamo noi oppure sono appoggiati alla madia di una sala con le pareti dipinte di ocra; e quel manico del coltello che sporge verso di noi, oltre a dare il senso di profondità dell’immagine sembra invitarci ad entrare. Ci affascina il gioco dei riflessi, sul barattolo di vetro - di un verde intenso come quelli delle dispense delle nostre nonne – e sui calici trasparenti, illuminati da bagliori appena colorati che li legano in una poetica armonia cromatica agli altri oggetti sulla tavola.
Un pittore straordinario Chardin, forse oggi meno conosciuto di quanto dovrebbe. Il disegno è quasi del tutto assente, sono i colori che fanno l’immagine e l’atmosfera silenziosa e atemporale di questa composizione: beige marrone crema ocra con qualche tocco di azzurro e la piccola nota rossa del decoro delle tazze. Indispensabile soffermarsi a guardare, i colori ci appaiono quasi vellutati, i riflessi e gli effetti di luce incantevoli. Una tecnica eccezionale ci fa percepire la diversità dei materiali: lo sciroppo denso che avvolge le albicocche, il vetro dei bicchieri, la sottile porcellana delle tazzine e perfino la crosta croccante delle focacce che hanno lasciato qualche briciola vicino al coltello. E poi la carta che avvolge i pacchi, ruvida e una nuvola di vapore appena percepibile che sale dalla tazza in primo piano. Chardin fa tutto questo con il colore steso in pennellate che si sovrappongono, che sfumano definendo le ombre e la sostanza di questi oggetti che all’improvviso ci sembrano bellissimi e importanti, tutt’altro che semplici e banali, sottratti all’anonimato della quotidianità.

Jean Siméon Chardin, particolare da Il barattolo di albicocche - 1758. Art Gallery of Ontario, Toronto (olio su tela ovale) © Art Gallery of Ontario

A dispetto dell’apparente facilità di questa immagine Chardin resta un pittore inafferrabile: questo barattolo di albicocche riesce a fermare per sempre un attimo di vita e al tempo stesso sembra un’apparizione fugace, i contorni poco definiti, i colori sfumati lasciano la sensazione dell’impermanenza.
Un messaggio - a mio parere - resta per sempre: imparare a guardare le cose anche le più semplici, perché hanno una magia che non ti aspetti.
Charles-Nicolas Cochin amico e primo biografo di Chardin racconta che il pittore dicesse: “.. ma chi vi ha detto che si dipinge con i colori! … ci si serve dei colori, ma si dipinge con il sentimento.”. Non è necessario aggiungere altro.



Dopo un'opera così magica mi sembra perfino un po' sciocco dire che l'appuntamento è per venerdì quando parlerò.. di fragole.

A presto,
Antonella.

lunedì 15 aprile 2024

INSALATA DI ORZO POMODORI OLIVE E FRIGGITELLI

Sabato e domenica, sono state giornate molto calde, penso un po’ in tutta Italia. E’ arrivata la stagione dei pranzi all’aperto: in terrazza al riparo delle tende, in giardino all'ombra di un piccolo pergolato o sotto un ombrellone o in casa con le finestre aperte, se il sole non entra direttamente invadendo la tavola da pranzo. Se si è in casa può essere carino simulare il verde del giardino o della terrazza distribuendo sulla tavola qualche piccolo vaso di vetro con un fiore.

In questa stagione mi piace preparare pranzi veloci con riso orzo o pasta lessati, lasciati raffreddare e poi conditi con verdure e tanto basilico.
Qui sotto una ricetta da fare con l’orzo, il farro oppure il riso (io ho scelto l’orzo).
 
INSALATA DI ORZO POMODORI E FRIGGITELLI
 


Ingredienti per 4 persone
320 gr di orzo perlato
400 gr di friggitelli
2 pomodori cuore di bue
100 gr di olive nere taggiasche
50 gr di ricotta da grattugiare
Basilico fresco
Olio extra vergine di oliva
Sale
 
Mettere a bagno l’orzo perlato in una ciotola piena di acqua fredda e lasciarlo risposare un quarto d’ora.
Nel frattempo mettere a bollire in una pentola capiente l’acqua per cuocere l’orzo.
Appena l’acqua bolle, aggiungere il sale e versare l’orzo.
Lasciar cuocere dodici minuti dalla ripresa del bollore (o fino al grado di cottura desiderato).
Scolare l’orzo e lasciarlo raffreddare in un vassoio ampio condito con tre cucchiai di olio extra vergine di oliva.
Per il condimento:
Accendere il grill del forno a 180 gradi.
Lavare i friggitelli, privarli del picciolo e tagliarli a metà eliminando, se ci sono, i semini interni.
Disporre i friggitelli su una teglia che possa andare in forno, foderata di carta da forno leggermente unta di olio.
Con l’aiuto di un pennello in silicone, ungere con poco olio extra vergine di oliva anche la superficie dei friggitelli e salarli leggermente.
Cuocere i friggitelli sotto il grill per 6/7 minuti fino a quando cominciano ad abbrustolirsi lievemente. Togliere i friggitelli dal forno e lasciarli raffreddare.
Nel frattempo lavare e asciugare i pomodori, togliere i semi all’interno, tagliarli a cubetti regolari e condirli con un pizzico di sale.
In una zuppiera riunire: i pomodori tagliati a cubetti, i friggitelli ormai freddi tagliati a piccole strisce, le olive taggiasche e le foglie di basilico spezzettato. Mescolare e aggiusta di sale.
Aggiungere al condimento l’orzo ormai a temperatura ambiente. Prima di servire aggiungere la ricotta grattugiata al momento e ancora un filo di olio extra vergine di oliva.
E’ buona anche lasciata riposare qualche ora; in questo caso però aggiungere la ricotta salata solo al momento di servire.
 
Vi dò appuntamento a domani con un quadro straordinario dall’atmosfera incantata e silenziosa.

A domani,
Antonella.

giovedì 11 aprile 2024

4 Idee per provare a fronteggiare la mancanza di tempo

Nel 2020, quando ci siamo ritrovati chiusi in casa a causa della pandemia, immagino che quelli che hanno avuto la fortuna di non ammalarsi abbiano approfittato di giornate che sembravano lunghissime. Sembrava che alla ripartenza della vita normale tutto sarebbe stato diverso, sembrava che si fosse capito che i ritmi slow erano da preferire rispetto alla frenesia un po’ priva di senso che avevamo vissuto fino a quel momento. C’era il gusto di fare il pane in casa, ad esempio, non si trovavano né lievito né farina, ve lo ricordate? Perché tutti facevano pane pizze biscotti e torte, (ri)scoprendo che vivere lentamente, prendersi spazi per fare cose piacevoli, aveva molti vantaggi.




E invece, nonostante le più rosee previsioni, tutto è tornato come prima, forse anche peggio. Il tempo non basta mai siamo tutti o quasi sempre in affanno. Ci sono tantissimi studi sulla cronica mancanza di tempo (o almeno quella che percepiamo come tale) dei nostri tempi. Alcuni anche molto autorevoli di psicologici e studiosi della storia del costume e delle società.
Quanto segue non ha nessuna pretesa scientifica (ci mancherebbe!), non sono né una psicologa, né una sociologa né niente del genere ho solo provato a riassumere tanto per ‘fare due chiacchiere’ una serie di articoli che ho letto su questo argomento (metto in fondo un paio di link se vi incuriosisce il tema) che mi interessa particolarmente, perché io sono una di quelle a cui il tempo non basta mai.

Intanto: la scarsità di tempo è la sensazione che abbiamo quando ci sembra che il tempo non sia mai abbastanza per fare tutto quello che vorremmo o che dobbiamo fare. Brutto, perché percepire che ci manca il tempo è una fonte di stress e di insoddisfazione: anche se lavoriamo sempre e corriamo di qua e di là, arriviamo a fine giornata con la sensazione che abbiamo speso tante energie e avuto poca soddisfazione.

Cosa fare per attenuare questa sensazione o provare a risolvere almeno in parte il problema? Non c’è una risposta semplice né valida per tutti, però possiamo fare qualche considerazione.

Il tema della scarsità del tempo o almeno di quella che percepiamo come tale ha in sintesi due aspetti: le cause di questa sensazione e come provare a risolvere.

Le cause.

La presenza sempre più massiccia di tecnologia nella nostra vita, ha paradossalmente avuto l’effetto di peggiorare le cose. Possiamo fare la spesa online e risparmiare un po’ di tempo? Bene, magari sfruttiamo il tempo che ci avanza per una lezione di pilates, per pulire le finestre o riordinare i libri. Riusciamo a sbrigare un problema con  la banca utilizzando la app? Abbiamo del tempo per svuotare gli armadi della cucina e rimettere tutto a posto. Insomma la possibilità offerte da una vita che diventa sempre più virtuale lasciano spazi che riempiamo con altre attività e la lista delle cose da fare si allunga – o nella migliore dele ipotesi rimane quella che è.

Abbiamo delle liste di cose da fare troppo piene, non necessariamente scritte, anche solo mentali: ci alziamo e facciamo mentalmente l’elenco delle cose che ci aspettano nella giornata. Questo invece di aiutarci a districarci nel quotidiano ci rende insoddisfatti e ansiosi per la voglia di arrivare a fine giornata avendo messo la crocetta ‘fatto’ su tutto.

Il diluvio di tecnologia è anche un fattore potente di distrazione. Questo ci danneggia in due modi: primo perché ci fa perdere inutilmente del tempo (qualunque sia quello che stiamo facendo se ogni tanto diamo un’occhiata al nostro smartphone e ai vari social i tempi per fare quello che stiamo seguendo si dilatano).

Due: può essere un ulteriore fattore di stress. Se dopo cena ci mettiamo un po’ sul divano a scorrere freneticamente Instagram o i messaggi o altro, una mezz’ora passa in un attimo e in un baleno arriva l’ora di andare a dormire. Che cosa ci ha lasciato questa mezz’ora? Per lo più niente; sfogliare una rivista, leggere un libro o guardare un buon film è tutt’altra esperienza, si ha la sensazione di aver impiegato bene il tempo, mentre i vari social sono molto ‘time consuming’ e non lasciano la stessa sensazione di soddisfazione.

 

Qualche idea per cercare di risolvere.

Provare a compilare delle liste di cose da fare più realistiche, cercando di valutare la priorità e il tempo che ciascuna di queste richiede. Non è facile riuscire a darsi dei limiti e capire realmente quali siano le nostre possibilità, ma è una di quelle cose per cui vale il detto ‘sbagliando si impara’. Progressivamente si può riuscire a creare liste di cose da fare che siano realmente di aiuto e non fonte di stress.

Imparare a dire ‘no’. Agli altri ma anche e soprattutto a noi stessi.

Provare per qualche giorno a monitorare come usiamo il tempo, sembra un po’ maniacale ma può essere realmente utile per cercare di individuare quando e dove perdiamo tempo inutilmente. Il tentativo è cercare di capire quali sono le cose che ci portano via una parte di tempo senza lasciarci la sensazione di aver fatto qualcosa di vero e di utile (quando per utile si intende anche mezz’ora che ci concediamo per rilassarci).

Imparare a prendere i propri spazi, senza pretendere che ogni minuto della nostra vita sia da riempire con ‘cose da fare’: leggere un libro in silenzio, ascoltare musica sul divano, fare una passeggiata di 15 minuti prima di cena, dedicare mezz’ora a preparare una torta non perché abbiamo qualcuno a cena ma perché ci vogliamo rilassare con uova zucchero e farina e trovare una piccola ‘sorpresa’ da gustare a fine giornata. Fare qualcosa che ci rilassa, che esce dalla routine del quotidiano e che ci regala qualche piccola soddisfazione è un modo per avere consapevolezza del fatto che il tempo lo stiamo usando bene, ne abbiamo avuto così tanto nella giornata che abbiamo anche potuto fare qualcosa di piacevole.  

E se qualcuno di voi pensa: io mi rilasso scrollando Instagram o cose del genere. Beh ben venga anche quello, purchè sia percepito come reale divertimento e non un modo di vincere la noia o la stanchezza.


10 Idee creative per risparmiare tempo

14 idee per rendere la vita più facile 

Mancanza di tempo: 7 idee per provare a cambiare qualcosa


Domani niente post shopping.

Appuntamento a lunedì per una ricetta salata dopo tanti dolci.

Grazie e buon fine settimana,
Antonella.

martedì 9 aprile 2024

Vincenzo Campi - La Fruttivendola

In un altro blog in cui parlavo di arte avevo creato una rubrica, ‘Attimi’ per raccontare di (copio da quanto avevo scritto) ‘opere meno note di artisti celeberrimi, di dettagli che possono sfuggire quando si visita una collezione d’arte, un grande museo, un palazzo affrescato dove gli oggetti che chiedono la nostra attenzione sono così tanti che qualcosa necessariamente si trascura. Di particolari che a mio parere sono imperdibili e che meritano di essere sottolineati.’

Si può apprezzare ed amare un dipinto (come qualsiasi altra cosa del resto) anche solo per alcuni suoi particolari, per un singolo dettaglio. E nell’opera di oggi, la Fruttivendola di Vincenzo Campi c’è a mio parere un dettaglio che la rende indimenticabile, per cui ho scelto di parlarne qui: il cesto ricolmo di baccelli (questo è il termine toscano, penso che in italiano si chiamino ‘fave’) appena colti che si mischiano ai fiori rosa con i petali delicatissimi e fragili.

le foto dei dettagli sono mie



Vincenzo Campi (Cremona, 1536 - 1591) è il più giovane dei tre fratelli Campi (Giulio e Antonio gli altri due), protagonisti con la loro bottega della vivace stagione artistica che caratterizza Cremona alla fine del XVI secolo. Città di confine, Cremona è il crocevia di suggestioni diverse: la ‘maniera’ di derivazione raffaellesca e michelangiolesca, l’attenzione al colore di matrice veneta, la sempre presente vocazione naturalistica tipica dell’arte lombarda.

Per l’attenzione tutta lombarda al ‘dato di natura’ Mina Gregori in un saggio del 2004 faceva due considerazioni: “… la Lombardia era una società contadina di origine feudale, anche se ebbe vivaci e battagliere città comunali, la sua base contadina serve a spiegare l’atteggiamento fondamentalmente empirico..” e poi ancora “..vista nell’area allargata padana la Lombardia usufruì della cultura delle grandi università di Pavia e Padova, la cui tradizione .. di filosofia aristotelica impresse alla civiltà del Nord, ritengo, un immanente rapporto con la realtà sensibile che esercitò un decisivo influsso sulle arti...”.

Ebbene mi sembra che in questa Fruttivendola (dipinta intorno al 1580) si possano rintracciare entrambe queste suggestioni: la matrice contadina evidentissima nella abbondanza di frutta e verdura riprodotta dal pittore quasi a significare la ricchezza di una terra generosa e la sapienza scientifica aristotelica per la attenta definizione botanica con la quale vengono rappresentate le diverse varietà.

Vincenzo Campi - La Fruttivendola  (1580 ca. Milano Pinacoteca di Brera)


Il dipinto è tradizionalmente intitolato La Fruttivendola, anche se qui non c’è traccia di mercato, vediamo solo una giovane donna con una bella camicia bianca dal collo pieghettato e una sorta di abito contadino della festa. E’ circondata da cesti, vassoi e ciotole piene di frutta e ortaggi: ci sono pesche, fichi, ciliegie, piselli e zucche, carciofi asparagi e il cesto di baccelli che trovo bellissimo e molto altro. Frutti appartenenti a stagioni diverse dell’anno, difficile quindi pensarli tutti insieme sul banco di un mercato. Sono riprodotti con grande abilità e un tessuto pittorico attento alle sfumature di colore e di luce. Osservate anche la varietà dei recipienti: piccole ceste di vimini intrecciato, vassoi di ferro, ciotole di ceramica o coccio, la grande tinozza di legno che contiene l’uva in primo piano. I cesti intrecciati sono tutti differenti così come i decori delle ciotole di coccio. Un campionario di oggetti e di frutta in cui Vincenzo Campi dimostra tutta la sua abilità nel riprodurre particolari minuti e la differenza tattile dei materiali.

Sicuramente meno ‘naturale’ e più di maniera è il gesto della ragazza che solleva con un certo artificio un grappolo di uva, l’accensione improvvisa dei nastri rossi che ornano le maniche dell’abito, il sorriso vagamente accennato, gli occhi che sembrano non guardare niente e il suo volto un po’ convenzionale, nel quale è difficile scorgere un ritratto al naturale. Suggestioni ancora diverse nel paesaggio sullo sfondo in cui la nebbia sembra avvolgere un paese in un lontano orizzonte, verso il quale il nostro occhio è attirato dalle torsioni di un piccolo corso d’acqua. Alla destra della ragazza invece due piccole figure una contadina piegata a raccogliere la frutta che un ragazzo fa cadere dall’albero.

Quale è il significato di un’opera come questa? La critica la inserisce all’interno di un gruppo di quattro tele che rappresentano ‘scene di genere’ (le altre tre ritraggono una pescivendola, una pollivendola e una scena di cucina) ed è facile associare a immagini di questo tipo (come per i coevi dipinti fiamminghi) significati allegorici - ad esempio riferimenti ai quattro elementi -  moraleggianti, che ricordano la vanitas, la fragilità della vita o complessi riferimenti cristologici.

Qualunque sia il significato vero o presunto di questo dipinto, resta intatto il fascino e la delicatezza con cui Campi ha riprodotto ogni singolo frutto, perfino le piccole more di gelso e la bellezza di quei fiori rosa che visti da vicino (se siete di Milano o ci passate, andate alla Pinacoteca di Brera e osservateli da vicino) sono proprio indimenticabili.

Ovunque si legge che questo è uno dei precedenti importanti per la nascita della natura morta come genere autonomo, qui siamo ancora agli inizi: una scena di genere nella quale le diverse qualità di frutta e ortaggi sono separate l’una dall’altra, ciascuna in un proprio recipiente e non raccolte in una composizione unitaria (come nella Canestra di Caravaggio ad esempio), mostrate a chi guarda come in una sorta di ‘capriccio vegetale’ in cui cose che di fatto in natura non si possono trovare tutte insieme sono qui esposte all’occhio divertito e curioso di chi guarda.

La scheda del dipinto sul sito della Pinacoteca di Brera

A giovedì per qualche considerazione sulla sistematica mancanza di tempo che (pare) affligge la maggior parte di noi.

 

Grazie,
Antonella.

lunedì 8 aprile 2024

Crostatine con crema al limone e meringa

Chiunque sia stato anche solo una volta in Francia avrà certo notato la perfezione dei dolci, esposti con grazia e direi quasi senso artistico un po’ ovunque, dalle semplici panetterie di campagna alle elegantissime sale da tè di Parigi. C’è sempre una parte della vetrina e del banco all’interno riservata ad una serie di piccoli capolavori spesso monoporzioni: crostate alla frutta, éclaires, fette di pan di spagna farcito, meringhe con la panna e i frutti di bosco, crostatine - come queste - con la crema al limone ed un ciuffo di meringa fiammeggiata. Naturalmente le mie non si avvicinano nemmeno lontanamente a quella perfezione, ma poichè restano uno dei miei dolci preferiti e ho una vera predilezione per i dolci monoporzione in questa stagione le faccio molto spesso.

 


Ingredienti per 4 crostatine (diametro degli stampi 8 cm circa):

 

Per la base di pasta frolla:

90 gr di farina 00

40 gr di burro freddo

40 gr di zucchero a velo non vanigliato

1 tuorlo d’uovo

1 pizzico di zenzero in polvere (pochissimo, la punta di un cucchiaino)

 

 

Per la crema al limone:

400 ml di latte intero

2 tuorli d'uovo

90 gr di zucchero semolato fine tipo Zefiro

30 gr di farina ‘00’

1 limone bio (succo e buccia)

 

 

Per la meringa:

1 albume

lo stesso peso dell’albume (20 gr circa) di zucchero a velo

lo stesso peso dell’albume (20 gr circa) di zucchero semolato fine, tipo Zefiro

 

Preparare per prima la pasta.

Mescolare in una ciotola mescolare lo zucchero a velo e il burro a pezzetti.

Appena il composto è amalgamato, aggiungere il tuorlo e per ultima la farina setacciata. Impastare fino a quando tutti gli ingredienti sono ben amalgamati, ma senza scaldare troppo la pasta con le mani.

Avvolgere la pasta nella pellicola e lasciar riposare in frigorifero per due ore.

Mentre la pasta riposa preparare la crema.

Mettere il latte a scaldare in una casseruola con la scorza del limone, lavata e asciugata e tagliata grossolanamente facendo attenzione non asportare la parte bianca.

Togliere il latte dal fuoco prima che inizi a bollire e lasciar intiepidire.

Sbattere i tuorli con lo zucchero fino a renderli spumosi (è sufficiente lavorarli a mano come per lo zabaione, non servono le fruste elettriche).

Unire ai tuorli la farina setacciata e amalgamare con una frusta.

Filtrare il latte per eliminare la buccia di limone e aggiungerlo a filo al composto di uova, facendo attenzione e non formare grumi.

Versare di nuovo tutto nella pentola dove si era scaldato il latte e cuocere a fiamma dolce continuando a mescolare con la frusta, fino a quando la crema comincia ad addensarsi (non deve essere troppo compatta).

Fuori dal fuoco aggiungere 5 o 6 cucchiai di succo di limone (dipende dai gusti, io aggiungo sempre molto limone), lasciar intiepidire la crema, coprendola con pellicola a contatto, fino al momento di utilizzarla.

Mentre la crema raffredda preparare la meringa.

Mescolare i due tipi di zucchero.

In una ciotola mettere l’albume  e iniziare a sbattere con l’aiuto delle fruste elettriche. Appena l’albume inizia a diventare un po’ consistente aggiungere il composto di zuccheri in tre fasi successive senza mai smettere di sbattere e utilizzando le fruste a velocità elevata.

L’obbiettivo è quello di ottenere una meringa soda e compatta, la prova ‘classica’ è verificare che la meringa rimanga attaccata alla ciotola quando questa viene inclinata… o addirittura capovolta!

Quando la meringa è pronta, trasferirla in un sac à poche e conservarla in frigo fino al momento di utilizzarla.

Trascorso il tempo di riposo della pasta, accendere il forno a 160 gradi.

Stendere la pasta tra due fogli di carta da forno e rivestire 4 stampini monoporzione (i miei hanno diametro cm 8).

Bucherellare il fondo di pasta con una forchetta e far cuocere in forno i gusci di pasta per 20 minuti, sfornarli e lasciarli raffreddare (non devono essere tolti subito dagli stampini perché rischiano di rompersi).

Riempi i gusci di pasta ormai freddi con una dose generosa di crema al limone, completare ogni crostatina con un ciuffo di meringa.

Per fiammeggiare la meringa conviene utilizzare una torcia da pasticcere, quelle che si usano per caramellare lo zucchero. In alternative passare le crostatine qualche minuto sotto il grill del forno già caldo a 200 gradi (fino a quando la meringa comincia un po’ a scurire).

Servire a temperatura ambiente.


A domani (con un post dedicato ad un'opera d'arte, penso, invece che alle chiacchiere del martedì. Forse invertirò le giornate) e grazie per essere passati di qui,

Antonella.

venerdì 5 aprile 2024

Idee shopping: sneakers ballerine e Mary Jane

Oggi post shopping dedicato alle scarpe basse: sneakers, ballerine e Mary Jane o meglio ‘scarpe con il cinturino’, da sempre la mia passione. Ne ricordo un paio con la punta tonda di pelle lucidissima con le quali da bambina camminavo tentando di non piegare il piede (!) per evitare che si formassero delle pieghette sulla pelle. Erano di quelle che si indossavano con i vestitini a punto smock e un cardigan leggero (cosa che tutto sommato mi piacerebbe poter fare anche adesso, nonostante che l’età forse non sia più quella giusta).

Scarpe basse dunque, che preferisco nettamente a quelle con il tacco. Naturalmente le scarpe che seguono non sono tutte sulla mia lista dei desideri, alcune le ho messe pensando solo che sono bellissime. E anche se non credo che la ‘bellezza salverà il mondo’ (perché il mondo è troppo assurdo) rimango convinta che guardare cose bellissime, un dipinto, un servito di piatti, un panorama e anche un paio di scarpe in una vetrina del lusso rimanga uno dei piccoli ma grandissimi piaceri della vita, molto EasyLife.

Preciso come ogni venerdì che questo blog non ha sponsor, non percepisco nessun compenso per gli oggetti che decido di pubblicare qui, né riceverò compensi se qualcuno di voi deciderà di acquistare una delle cose che ho selezionato solo di mia iniziativa. Le cose che ho inserito in questo spazio ci sono perchè piacciono a me, non c’è nessuna altra ragione per parlarne qui. 

SNEAKERS

Una volta si chiamavano scarpe da ginnastica e si usavano – appunto – solo per andare a ginnastica, in palestra o poco più. Ora siamo tutte pazze per le sneakers, compagne fedeli per le giornate di shopping in città, per fare la spesa al mercato nella piazza sotto casa, per una passeggiata in centro il venerdì pomeriggio (ma anche il sabato) con jeans maglione pesante e piumino se è freddo, jeans camicetta e maglione di cotone appena la temperatura si alza un po’. Ma c’è chi le indossa anche con vestiti leggeri, bianchissime sotto un completo tutto nero maglia e pantaloni, con ampi pantaloni di lino in estate.. non ci sono limiti insomma. Ce ne sono decine di modelli (anche vegane come le celeberrime Veja) a volte a mio gusto decisamente orribili e di tutti i prezzi, in molti casi prezzi stellari direi, anche se sono solo .. scarpe da ginnastica appunto.


Elegantissime le Hogan Azzurre

Veja: vegane e famosissime

Un grande classico, le ADIDAS

Raffinate con inseriti in nabuk di Hugo Boss


BALLERINE

In assoluto le mie scarpe preferite.

Ne ho decine di paia accumulate negli anni e mai gettate via perché tanto.. prima o poi quel colore torna di moda. Conservo ancora le prime di quando ero bambina: di pelle lucida (ancora!) azzurro pallido con un pon pon azzurro e argento. Mia sorella le aveva identiche ma rosa confetto. Altri tempi.

La scelta è vastissima, punta rotonda (Ferragamo un vero classico ma anche le Rosario di Pretty Ballerinas), quadrata o appuntita; lisce o con fiocchi, fibbie e pon pon come decorazione; di pelle, di stoffa, argentate o ricoperte di glitter. Sportive oppure elegantissime, quasi perfette anche per l’abito da sera (quelle di Aquazzura, sono un sogno).

 


Un semplice fiocco di cordoncino per le Rosario di Pretty Ballerinas qui in versione primaverile 

Un vero classico senza tempo e senza stagione: Salvatore Ferragamo

Perfette e bellissime le Aquazzura con un elegantissimo fiocco

Camoscio rosa e fibbia effetto tartaruga per Polin et Moi


MARY JANE
Ovvero le magiche scarpe con il cinturino che stanno bene a tutte e si abbinano con tutto. Dai jeans alle sottane lunghe quasi fino a terra ai vestitini leggeri. Come per le ballerine i modelli sono infiniti: cinturino alla caviglia, al centro del piede, doppio o singolo. In versione elegantissima (Aquazzura anche in questo caso) o comodosa (le Monde Beryl), easychic in velluto con inserto glitter (Mia Moltrasio). Perfette anche con la suola modello ‘friulana’ (ViBiVENEZiA) da indossare per leggere sul divano dopo cena.

 


Velluto azzurro intenso per le Mary Jane di Le Mond Beryl 

Friulane modello Mary Jane verde salvia di ViBiVENEZiA

Deliziose: Mia Moltrasio con inserto glitter sul retro

Un sogno le Aquazzura in suede nero con cinturino alla caviglia


Se siete curiose di scoprire la storia delle Mary jane leggete qui.

Buon fine settimana.

A lunedì con una ricetta di crostatine monoporzione molto primaverili.

Antonella.


giovedì 4 aprile 2024

Flora di Stabiae - Museo Archeologico Nazionale, Napoli

Tanti sono gli artisti che hanno celebrato l’arrivo della primavera stagione con immagini sontuose di prati fioriti, ragazze a passeggio con delicati ombrellini parasole, feste pagane di dei circondati da ghirlande di fiori e amorini dispettosi. Una per tutte: la straordinaria Flora di Sandro Botticelli, biondissima, con un sorriso dolce ed un elegante abito di tulle cosparso di fiori che hanno i colori dei confetti. Entra nel mondo con passo lieve e lo inonda di fiori e petali leggeri. 

Questa invece è l’immagine di questa ragazza di quasi 2000 anni fa. 

 

Flora da Stabiae, prima metà I secolo d.C. - Napoli - Museo Archeologico Nazionale inv. 8834  

Sebbene ci appaia modernissima con i capelli annodati in uno chignon improvvisato, come se li avesse appuntati di fretta, si tratta di un affresco che proviene da una villa romana di Stabia, la città che con Pompei e Ercolano fu distrutta dalla eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. Sullo sfondo di un luminoso color verde la vediamo di spalle, con il viso appena rivolto di profilo, intenta a cogliere i fiori con un gesto elegante, da ragazza copertina. Fiori che poi sistema in una sorta di cesto di vimini intrecciato (che i greci chiamavano kalathos) che tiene appoggiato con disinvoltura sul braccio. Non c’è alcun riferimento spaziale, eppure lei non fluttua nel vuoto, vediamo che poggia solida con un piede su un’immaginaria linea di posa, mentre con l’altro, piegato, accenna un passo e procede con leggerezza all’interno di un giardino che pensiamo infinitamente grande. Indossa un chitone giallo e una spallina le scivola mollemente sul braccio, sopra il chitone una tunica leggera, quasi un velo nei toni dell’azzurro e del bianco che si scompiglia leggero seguendo il ritmo del suo passo. Ha un bracciale importante che i romani chiamavano armilla e un piccolo diadema dorato, forse guarnito di fiori, intrecciato tra i capelli. 

 

Flora da Stabiae, prima metà I secolo d.C. - Napoli - Museo Archeologico Nazionale inv. 8834 -particolare 


Straordinaria la tecnica di questo artista sconosciuto che ha realizzato con pochi colori un’immagine così elegante, quasi diafana, indimenticabile: il giallo oro del chitone, la trasparenza del velo, i delicati petali dei fiori dei quali possiamo quasi avvertire il profumo anche se sono appena accennati con tocchi di pennello, i riccioli scomposti dello chignon sono solo alcuni dei molti dettagli incantevoli di questa immagine.


L’affresco, che oggi si trova al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fu rinvenuto nel 1759 in un cubicolo, un piccolo ambiente, della cosiddetta Villa di Arianna a Stabia. E’ datato intorno alla prima metà del I secolo d.C. nel periodo del ‘terzo stile pompeiano’, nel quale gli effetti prospettici e le architetture dipinte che avevano caratterizzato lo stile precedente lasciano spazio ad ampie campiture di colore luminoso, prive di effetti illusionistici nelle quali trovano spazio paesaggi, storie del mito o figure eleganti come questa. E’ nota con il nome di ‘Primavera’ o ‘Flora’, ma di fatto non sappiamo di preciso chi rappresenti, non ha attributi iconografici chiari, niente che ne consenta un’identificazione esatta: immagine idealizzata della Primavera, Flora oppure una Kore o ancora una delle Ore che attraversa lieve questo immenso prato, inesorabile come il trascorrere del tempo; comunque una dea simbolo di eleganza e femminilità. Perfetta per segnare l’inizio di questa stagione, tanto più adesso: perché ci volge le spalle, come se si rifiutasse di guardare il mondo. E non si può che darle ragione.

Per saperne di più: gli Affreschi al Museo Archeologio Nazionale di Napoli.


Domani, come ogni venerdì, angolo dello shopping: sneakers, Mary Jane e ballerine.

A domani allora,
Antonella.


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